Dall’archivio storico de La Sicilia riemerge una figura dimenticata: la Brigantessa Carmela

PASQUALE ALMIRANTE

L’archivio storico de La Sicilia, dal 1943 ai nostri giorni, è una fonte straordinaria di cronache, di personaggi, eventi, fatti utilissimi per ripercorrere brani della storia d’Italia, perduti ormai tra le dissonanti note del terzo millennio. Pezzi di vita vissuta, ma ormai dimenticati, racconti e servizi giornalistici dentro i quali, quando vengono alla luce, si scoprono episodi che, se per un verso ammaliano la fantasia e l’immaginazione, dall’altro dimostrano quanto il tempo poco abbia inciso dentro l’animo più intimo dell’umanità. Anzi talvolta sembra di leggere cronache dei nostri tempi, se non fosse a ricordarli i nomi dei personaggi, i caratteri grafici e le immagini. E tra le tante che abbiamo spulciato, singolare ci è apparsa la vicenda di una brigantessa, tale Carmela Di Dio, nata a Riesi, in provincia di Caltanissetta, nel 1909 e, per un caso fortuito, incontrata tra le pagine del quotidiano del 1951, quando aveva quarant’anni. È sullo scranno degli imputati al tribunale di Catania, colpevole di essere fuggita dal carcere di Perugia, e poi di furto e di essersi sottratta alla giustizia; inoltre, ha ancora molti anni da scontare in galera per reati pregressi, quali associazione a delinquere, sequestro di persona, abigeati, forse omicidio e via dicendo: una sfilza di imputazioni insomma che le derivano dalla sua militanza tra le fila di una banda tra le più pericolose e militarizzate della zona, che ha compiuto efferate gesta tra Mazzarino e Riesi fino a San Cono, Gela e Niscemi, negli anni tra il 1943 e il 1952. Carmela fra l’altro era la donna del capobanda, che però era più giovane di lei, e quando fu arrestata, nel 1947, si trovava a Roma, in un appartamento di via Tembien, 41, col suo amante e una canzonettista, un eufemismo per non chiamarla prostituta. In altre parole, racconta La Sicilia dell’epoca, Carmela era così innamorata del suo uomo che si accollava le corna del brigante e accettava senza protestare un “ménage à trois”. La canzonettista invece sembrava rosa da un po’ di gelosia, tanto che al processo disse ai giudici che preferiva chiamare la rivale “la giumenta”, per via forse dei suoi appetiti sessuali, ma anche del suo aspetto fisico che è così descritto dal giornalista anonimo: la testa piccola, alta e mobilissima; gli occhi intelligenti e il corpo “dal taglio ferino, selvaggio e guizzante” dove si sente “la razza berbera delle compagne di uomini arditi disposti a seguirle”. Carmela, insomma, era una brigantessa, non una mantenuta, e riscuoteva incondizionato il rispetto e il timore dell’intera banda, e anche per questo era il braccio destro del capo, di cui era anche consigliera, e che si era dato alla macchia (sull’esempio di Salvatore Giuliano) dopo lo sbarco alleato e sull’onda delle macerie lasciate prima dal fascismo e poi dai comandi americani, che non seppero creare in Sicilia un ordine stabile. Non sapeva leggere né scrivere Carmela e spesso osava perfino rapinare e grassare da sola, per cui doveva conoscere benissimo l’uso delle armi, anche militari, che all’epoca erano di facile reperimento. Tuttavia, nelle sue ambizioni più manifeste c’era anche quella di creare una banda di sole donne e per tale fine, su un cavallo “bianco” e vestita con abiti maschili, girava i paesi del circondario nel tentativo di fare proselite e reclutarle al suo comando. Idea che può sembrare stravagante per quei tempi, ma che il cronista della Sicilia descrive con onesto impegno, tanto da fare pensare a una Carmela Di Dio antesignana del moderno femminismo, sia nella convinta volontà di non subire ordini dai maschi, ma anzi di erogarne, e sia in quella di dare pari opportunità alle altre donne, insofferenti come lei del potere virile, perfino nella gestione di una organizzazione criminale, come quella dei briganti. Arrestata dunque a Roma nel 1947, fu processata e condannata a 27 anni di reclusione, che doveva scontare nel carcere di Perugia, dove era stata rinchiusa la famosa Rina Fort (della quale La Sicilia del tempo porta ampi resoconti del processo), con cui nessuna delle detenute voleva convivere per l’orrore del suo delitto e nel timore che qualcuna l’assassinasse. La Fort intatti, definita ormai la “belva di via S. Gregorio” di Milano, era stata dichiara colpevole di avere ucciso, nel 1946, la moglie e i tre figli del suo amante catanese a colpi di spranga di ferro, nel loro appartamento. La donna però, per causa dei suoi continui rimorsi, sembra abbia indotto Carmela a votarsi a Dio e farsi monaca, come la stessa “belva” si proponeva di fare. Tuttavia, mentre la Fort non fu creduta, per Carmela invece la custodia del carcere si allentò per consentirle di praticare la nuova vocazione; senonché, quando parve a lei, eludendo la sorveglianza, scavalcò il muro del convento, dove era stata trasferita per pregare e meditare, e scappò. A piedi, tra strade di campagna e viottoli, raggiunse Catania. Nella città etnea entrò a servizio, come cameriera, nella casa di un notaio (di cui sul quotidiano è riportato il nome), ma ancora una volta, e al momento opportuno, dopo avere sottratto soldi e biancheria, fuggì e, sempre a piedi, raggiunse Piazza Armerina. Anche qui entra a servizio di una casa delle piccola borghesia locale, senonché, prima che potesse ripetere gli stessi delitti di Catania - razziare soldi e poi scappare - fu riconosciuta da una signora amica della famiglia e denunciata. Arrestata, viene tradotta nel carcere di Catania dove la troviamo mentre si celebra il processo a suo carico presso la corte di Assisi. Siamo così arrivati al 1951. Giudicata colpevole e condannata, viene rinchiusa nel locale carcere. Da quel momento in poi di Carmela Di Dio di Riesi su La Sicilia si perdono le tracce, mentre appaiono con tracotante nettezza quelle della banda del suo amante, che continuava a infestare le campagne tra il Nisseno, il Catanese e l’Ennese. 

© La Sicilia 21 agosto 2018