La Sicilia - Giornalisti-panda e il filo rosso tra notizia e storia

CARLO ANASTASIO

Chissà come un panda (se avesse voglia di farlo) racconterebbe se stesso. Molti giornalisti, preoccupati di appartenere a una specie a rischio di estinzione, e talvolta convinti di dover essere tutelati come specie protetta, danno di sé una descrizione – una narrazione, uno storytelling, come si dice ora – nella quale si esalta l'opportunità e persino la necessità della loro funzione, il che equivarrebbe a una sorta di insostituibilità del panda. E l'ultimo libro di Giuseppe Di Fazio, “La notizia diventa storia” (Domenico Sanfilippo Editore), mettendo in luce aspetti utili e anche elevati della professione, può servire come prezioso prontuario per curare l'autostima di una categoria che tra nuovi meccanismi mediatici e strapotere dei social si sente sempre più scavalcata, e ormai tende alla crisi esistenziale.
    Ma sarebbe un uso improprio, perché il libro è tutt'altro che un manuale di consolazione e salvataggio. E anzi, nonostante il tono pacato, è radicalmente severo, perché sottolineando con forza i valori e i doveri del sistema dell’informazione ne fa vedere in contraltare le distorsioni e gli abusi, come nel caso di Loris, il bambino ucciso a Santa Croce Camerina. È uno stimolo a riflettere, e anche a riguardare il già-visto con occhi diversi, o almeno più attenti. E, se da un lato dà risposte, dall’altro induce a porsi domande.
    Per me, una domanda basilare ha qualche analogia con la questione del gatto di Schrödinger. Si tratta – va detto per chi non lo sapesse – dell'immaginario felino di un esperimento mentale escogitato da Erwin Schrödinger per far risaltare un paradosso della fisica moderna. Il gatto si trova dentro una scatola di metallo con un congegno al gas di cianuro che dipende dallo stato di un solo atomo; e poiché nella “realtà” probabilistica l'atomo sta contemporaneamente nello stato che lascia bloccato il gas e nello stato che invece lo libera, il gatto è contemporaneamente vivo e morto. Ma c'è un finché: finché qualcuno non guarda dentro la scatola, non vede se il gatto è vivo oppure morto, e a seconda di quale evenienza osserva determina di fatto, “decide”, qual è lo stato dell'atomo, che in quel momento non potrà più essere contemporaneamente una cosa e il suo contrario. Ecco, l’elemento cruciale della questione del micio in scatola è l'osservatore. La notizia diventa storia, afferma Di Fazio, ma la notizia può anche “fare” la storia? Ossia, la storia può avvenire perché qualcuno – magari un giornalista – guarda dentro la scatola? Oppure il gatto è vivo o morto, e non entrambe le cose, a prescindere dal fatto che qualcuno – magari un giornalista – osservi e racconti?
    Usciamo dal paradosso e veniamo a un avvenimento esemplare ricordato nel libro: il punto d'inizio della rivoluzione dei gelsomini. Siamo in Tunisia, il 17 dicembre del 2010: un giovane venditore ambulante, vessato dalla polizia, si dà fuoco. La notizia vola sul Web, nei social, si trasforma in tam-tam online. Nasce una protesta di popolo. La protesta ha eco all'estero, arriva nei media occidentali, e dai media occidentali rimbalza attraverso Internet in Tunisia, legittimando ulteriormente le manifestazioni. Insomma il processo si autoalimenta e cresce. La rivoluzione dei gelsomini infine abbatte il regime, fa la storia. Ebbene, sembra evidente che il diffondersi e l'amplificarsi della notizia, e in questo anche la parte che vi hanno avuto i mass media, siano stati determinanti per la rivoluzione. Ma abbiamo la controprova? O non è accaduto invece il contrario, cioè che la rivoluzione era matura nell'animo del popolo tunisino e comunque sarebbe scoppiata, e il suo aspetto social e mediatico ne è stato solo una conseguenza? Del resto, i sanculotti della presa della Bastiglia non avevano Facebook, eppure se la cavarono perfettamente.
    Il dubbio, benedetto dubbio, suggerisce un esercizio di prudenza e modestia, o di puro e semplice buonsenso. Il sistema dell’informazione certamente è importante, ma fa meglio a evitare quella che potremmo chiamare la sindrome del gallo: credere che il sole sorga perché esso canta. Dunque, forse non è il caso che gli operatori dell’informazione si sentano sul viale del tramonto, ma nemmeno è il caso che si ritengano i creatori dell’alba.
    E ad ogni modo, al di sopra dell’antropologia del giornalista - oppure della zoologia: tra panda, gatti e galli - vale l’etica del suo lavoro. Un robusto filo etico lega pagina per pagina tutto il testo di Di Fazio. Leggendolo, si compie un viaggio (si potrebbe dire, nel senso positivo del percorso di scoperta e conoscenza, un’Odissea) lungo un itinerario di temi fra loro molto diversi: dalla primavera araba agli esordi del quotidiano “La Sicilia”, dalla mafia al terrorismo islamista, dall’assurda palude della formazione professionale in Sicilia all’infernale esodo dei migranti, e altro ancora. Temi separati ma che richiedono al giornalista lo stesso approccio (luoghi d’approdo o anche di naufragio lontani che richiedono a Odisseo lo stesso impegno): lo sforzo di capire senza pregiudizi e di riferire senza veli.
    Per questo sforzo, non sono pochi i buoni strumenti, alcuni indispensabili, del mestiere. Eccone un breve elenco. L’attenzione sempre vigile, perché bisogna cercare – scrive Di Fazio – “fatti che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno riesce a vedere”. L’onestà, perché come nella tragedia di Santa Croce Camerina è grande la tentazione di alzare le vendite e l’audience con la “m a n ipolazione dell’anima”, deformando la realtà per farne spettacolo. La volontà di mettersi sempre in discussione, perché a volte, come per le rivolte arabe, “dobbiamo voltarci indietro e riscrivere una storia che avevamo frettolosamente archiviato”. E possibilmente un po’ di eroismo, o di elogiabile follia, come nelle esperienze dell’inviato de “La Stampa” Domenico Quirico, che per comprendere i fatti dal di dentro finisce sequestrato dai terroristi e attraversa il mare su un barcone di migranti.
    Il tutto, sempre, a qualsiasi costo, sotto un unico comandamento: la verità. Di Fazio cita Leonardo Sciascia: “La verità (…) fa soltanto il gioco della verità”. A nessun altro gioco – è il primo significato del libro – deve mai giocare l’informazione

© La Sicilia 7 giugno 2016