La Sicilia - Milazzo, una lezione di vero giornalismo.

FERRUCCIO DE BORTOLI

Negli anni più drammatici della vita del Corriere - e lui se li fece tutti quasi fosse predestinato - gli chiesi come facesse a reggere la tensione della direzione. Ne parlo oggi a ragion veduta. All’epoca io ero un semplice graduato dell’economia mentre lui, Nino, ricopriva un ruolo guida della redazione sia con la direzione Cavallari sia con quella di Ostellino. Alla mia domanda ingenua e forse impertinente, Milazzo mi rispose che alla domenica mattina, quando poteva permettersi il “lusso” di venire al giornale un po’ più tardi, si rilassava vedendo un vecchio film western in bianco e nero. Me lo diceva, nella sua cortese timidezza mediterranea, quasi con un moto di colpa. In tanti anni di comune militanza giornalistica ho ammirato molto - ma non è la sola qualità ovviamente - il religioso senso del dovere, l’etica del lavoro praticata con l’esempio. Un grande giornalista non molla mai, nemmeno quando è in corta, ovvero di riposo.

Una disciplina professionale, quella di Milazzo, che contrastava vistosamente con il sentimento bohémien e romantico del giornalismo del tempo. Milazzo apprezzava il coraggio e le qualità di scrittura dei colleghi ma esigeva allo stesso tempo, anche alle firme più titolate, chiarezza e precisione.

Non giustificava errori ed omissioni con lo sfoggio delle migliori doti letterarie. Ed è per questo che penso, rileggendo i suoi tanti articoli non solo sul Corriere, che Nino avesse anticipato la moderna ossessione della verifica e della precisione nel dettaglio, oggi conosciuta con il termine factchecking. Ci ha preparato con la sua suadente pignoleria al mondo della Rete, dove girano molte bufale, certo, ma le bugie dei giornalisti hanno davvero le gambe corte. Oggi alcuni fini cesellatori di mezze verità - e il giornalismo del tempo ne aveva diversi accanto a fuoriclasse irripetibili - si troverebbero giustamente a mal partito. Nino no, si sentirebbe perfettamente a suo agio.

Perché della verifica, della cura scrupolosa degli articoli - che Ronchey chiamava sindrome dell’accertamento - ha fatto una semplice regola di vita professionale. La sua grande passione, ovviamente, è stata la politica estera. E la disamina puntuale della collocazione dell’Italia nel solco atlantico del Dopoguerra, senza ipocrisie e infingimenti. Possiamo dire che oggi alcuni suoi interventi sono stati importanti nel difendere il quadro delle alleanze italiane in una situazione interna del Paese in cui la presenza del partito comunista, con una doppia appartenenza, le metteva costantemente in discussione. Specie negli anni Settanta. Ha intravisto progressi e fragilità della costruzione europea, il crescere in Medio Oriente di un integralismo religioso di cui oggi vediamo i sanguinosi effetti, il potenziale velenoso dei nuovi nazionalismi o dei separatismi nel Regno Unito e in Spagna. Credo che la rilettura degli articoli sulle presidenziali americane gli renda il giusto merito nell’inquadrare, per esempio, la personalità di Reagan quando ancora in Italia si ironizzava sul fatto che un ex attore potesse arrivare alla Casa Bianca.

Non vi è mai stato un approccio ideologico né ai temi di politica estera né tantomeno alle questioni più squisitamente interne del Paese. Milazzo non ha mai polemizzato con i fatti se questi si allontanavano dalle proprie previsioni. Una tentazione che non muore mai, anche e soprattutto nel magico mondo della Rete. Un vizio cui molte penne celebri non sono indenni. L’umiltà è dote rara anche perché viene scambiata per debolezza identitaria. Milazzo ha avuto, negli anni in cui siamo stati insieme, la gentile fermezza delle persone convinte delle proprie idee ma non disposte a piegare quelle altrui. Un mediatore con la dote di sapere ascoltare in un mondo giornalistico che sente solo l’eco delle proprie parole. Un liberaldemocratico autentico è persona che pratica il metodo socratico del confronto. Non si separa mai dal beneficio laico del dubbio. Ed è per questo che il suo giornalismo, non gridato, responsabile, colto, può essere un esempio per le nuove generazioni di giornalisti.

Mi ha colpito poi in Nino lo speciale rapporto con la sua terra, la Sicilia. Amata con passione forse poco ricambiata.

Ho sempre pensato che non l’avrebbe mai lasciata. E anche negli anni milanesi ho avuto l’impressione che volesse conservare il suo stato di precarietà per non allontanarsene troppo.

Curioso, in un giornalista che ha conosciuto il mondo e, soprattutto, lo ha descritto agli altri. Un viaggiatore riluttante e, al tempo stesso, un osservatore che ha spinto il suo sguardo oltre ogni orizzonte. Ma le radici non le ha mai tagliate e nemmeno ha tentato di farlo.

Quasi una dimensione letteraria quella di Nino. Ricordo che quando da vice direttore decise di lasciare via Solferino e di tornare a Catania mi apparve nel contempo sollevato e rattristato.

E la sua terra, a seconda dei momenti, un’oasi di pace o una prigione dei sentimenti. Si congedò dalla redazione scrivendo a ognuno dei redattori. A mio modo l’ho imitato. Bisogna rendere conto agli altri del proprio lavoro e anche a se stessi. Perché i ricordi sono pieni di rimorsi e ripensamenti.

Ma in questo caso, ricordando i tanti anni trascorsi insieme, i mille insegnamenti ricevuti, prevale solo il sentimento di gratitudine.

Fortunate le persone, come me e Nino, che si sono trovate a percorrere un lungo tratto di vita - testimoni di una porzione di storia - di cui conservano intatta l’emozione.

Basta così. Un abbraccio Nino e un grazie a tutti i lettori di questo libro, voluto fortemente da un editore attento.

© La Sicilia 26 marzo 2017