Salvatore Giuliano. Il giallo irrisolto della morte del “re di Montelepre”

di Giorgio Petta

«Ma quale mistero? Era Salvatore Giuliano. Non ho dubbi. La storia del sosia, di “Turiddu” fuggito negli Stati Uniti è una balla». Ha 90 anni Livio Messina, l’ex caposervizio de “La Sicilia”, che il 5 luglio del 1950 fu probabilmente il primo giornalista d’Italia ad arrivare a Castelvetrano trovandosi davanti agli occhi, steso bocconi nella polvere del cortile De Maria, il cadavere del “re di Montelepre”, il nemico pubblico numero uno che per sette anni, da bandito a colonnello dell’esercito dell’Evis, aveva messo a ferro e fuoco la Sicilia occidentale. La strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 - 11 morti e 57 feriti - segnò l’apice di una carriera criminale ancora densa di punti oscuri per le protezioni politiche e mafiose di cui godette fino al tuttora nebuloso appuntamento con la morte in quell’afoso luglio di 65 anni fa. «I carabinieri del Cfrb, il Comando forze repressione banditismo agli ordini del colonnello Ugo Luca, ci dissero - aggiunge Livio Messina - che Giuliano era stato ucciso in un conflitto a fuoco ingaggiato nella notte con i militari dell’Arma in via Fra’ Serafino Mannone».

Nei primi 10 anni di vita de “La Sicilia”, Livio Messina è stato il cronista di punta. A distanza di 65 anni da quegli avvenimenti dice di ricordare poco o nulla: «La memoria - sostiene - fa cilecca». Ma non è vero. «La mattina del 5 luglio 1950 - ricorda - mi trovavo a Palermo perché dovevo laurearmi in Giurisprudenza. Ero ospite, in via Isidoro La Lumia, a casa di mio zio, Filippo Messina Vitrano, docente di Diritto Romano ed ex preside, perché era già morto, della facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Alle 6 mi telefonò il direttore Antonio Prestinenza. Mi disse: “Hanno ammazzato Salvatore Giuliano. Prendi un mezzo qualsiasi e vai a Castelvetrano”. Andai allora dal prof. Salvatore Riccobono, che era preside della facoltà, e gli dissi: “Deve laurearmi il primo di tutti o non se ne fa nulla. Fuori c’è il taxi che mi aspetta”. Relatore della mia tesi era il prof. Bernardo Albanese, allievo come Riccobono di mio zio. La commissione d’esami non mi fece domande. “Lei, mi disse Albanese, dovrebbe vergognarsi di essere nipote di suo zio”. Non gli risposi neppure. Mi laureai in pochi minuti e scappai via senza aspettare il voto. Mi infilai nel taxi che mi aspettava davanti all’università e mi precipitai a Castelvetrano, dove arrivai intorno alle 9 e mezza. Passato qualche giorno seppi di essermi laureato con 90». Sessant’anni dopo, l’8 agosto 2010, c’è una notizia che esplode come una bomba sui giornali. La Procura di Palermo vuole accertare se il cadavere seppellito nella cappella di famiglia nel cimitero di Montelepre è di Salvatore Giuliano. A sollevare il dubbio è un esposto dello storico Giuseppe Casarrubea. Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Pasquale Sciortino e di Mariannina, la sorella di “Turiddu”, è addirittura sicuro. Nel sarcofago c’è il cadavere di un sosia, quello mostrato dai carabinieri ai giornalisti il 5 luglio del 1950. Lo zio, con l’aiuto del misterioso giornalista-colonnello Mike Stern e dei servizi segreti Usa, sarebbe, infatti, fuggito dalla Sicilia - con un aereo decollato dall’aeroporto di Castelvetrano - raggiungendo New York dove sarebbe vissuto fino alla morte, avvenuta nel 2006, a 84 anni. Non solo, ma “Turiddu” sarebbe ritornato in Sicilia due volte, per partecipare ai funerali della madre, Maria Lombardo, e della sorella Mariannina. «La famiglia Giuliano - sostiene Giuseppe Sciortino Giuliano, autore, tra l’altro, del volume “Vita d’inferno. Cause ed affetti” - non ha nulla da nascondere.

Semmai è lo Stato che ha qualcosa da nascondere: apra gli archivi e vedremo». L’unica strada da percorrere per sapere chi è stato seppellito il 9 luglio 1950 è l’esame del Dna prelevato dal cadavere e confrontato con quello dei parenti di Salvatore Giuliano. Il 28 ottobre 2010 il sarcofago viene aperto alla presenza del procuratore aggiunto Antonio Ingroia e degli altri magistrati inquirenti nonché del perito incaricato dell’esame, l’anatomo-patologo Fulvio Milone dell’Università di Palermo. Fuori dal cimitero - rigorosamente off limits con un’ordinanza ad hoc dell’allora sindaco Giacomo Tinervia - una folla straboccante di cronisti, cameramen, fotografi, forze dell’ordine, parenti, amici ed estimatori del “re di Montelepre”, curiosi e persino turisti stranieri in vacanza in Sicilia richiamati dal mito di “Turiddu”-Robin Hood. Dalla bara di legno sono prelevati il cranio, alcuni ciuffi di capelli, qualche dente, la colonna vertebrale, il bacino, le ossa lunghe delle braccia e delle gambe, i resti di una giacca di fustagno. Per un’ulteriore conferma, i magistrati ordinano l’esame degli effetti personali - un cuscino, una borraccia, alcuni indumenti custoditi dai familiari e nel museo di Montelepre - appartenuti a Giuliano e da cui la Polizia Scientifica dovrà estrarre il profilo genetico del bandito da comparare con il Dna prelevato dai frammenti del cadavere. Inoltre, la Polizia Scientifica dovrà controllare tutte le fotografie disponibili del cadavere di Giuliano sia nel cortile De Maria che nell’obitorio del cimitero di Castelvetrano, compreso il filmato diffuso all’epoca dal cinegiornale “La settimana Incom”. E questo perché il prof. Alberto Bellocco, docente di Medicina Legale all’Università Cattolica di Roma, sostiene che i cadaveri sarebbero due. A lui si era rivolto, per chiedere una consulenza, il giornalista della Rai Franco Cuozzo che nel 2000 aveva trovato nell’archivio della Fondazione Allori alcune foto di Giuliano, scattate nell’obitorio di Castelvetrano nel tardo pomeriggio del 6 luglio 1950 dal fotografo Osvaldo Restalli. Immagini che Cuozzo non aveva mai visto e quindi rileva che il cadavere fotografato era «troppo fresco» per essere stato all’aria aperta dalle 3 di notte alle 10 (fino alle 15 per alcuni)  del 5 luglio. Non risultano - afferma - segni di “rigor mortis” dopo 37 ore e inoltre dalle ferite (due al braccio e all’avambraccio destro e altre due al costato destro) cola ancora sangue. Dell’esistenza del sosia - un giovane originario di Altofonte, un paesino a pochi chilometri da Palermo, individuato dallo stesso Giuliano dopo lunghe ricerche e sparito nel nulla nei giorni precedenti la sparatoria di via Fra’ Serafino Mannone - parla Mariannina Giuliano, a pagina 343 del memoriale “Mio fratello Salvatore Giuliano” scritto con suo figlio Giuseppe Sciortino Giuliano. Due pagine dopo sostiene che né la madre, Maria Lombardo, né la sorella, Giuseppina Giuliano, ebbero modo di riconoscere “Turiddu”. Accompagnate a Castelvetrano nella sala mortuaria dal medico di famiglia Letterio Maggiore (depositario, pare, della verità sulla strage di Portella della Ginestra e morto il 5 maggio 1972 nel disastro aereo di Montagna Longa) le due donne svennero, a distanza di qualche metro, alla vista del cadavere crivellato di colpi disteso su una lastra di marmo. Per i carabinieri fu la prova che si trattava del bandito, per Mariannina il contrario: le due donne svennero per la gioia che fosse il sosia. Un “giallo”. Uno dei tanti del «caso Giuliano». Come la sparizione del fascicolo giudiziario relativo alla morte del fuorilegge e redatto 65 anni fa. Per aggiungere un ulteriore tassello verso la verità, nell’inchiesta sul Dna, i pm cercano, infatti, il fascicolo contenente il referto dell’autopsia del cadavere eseguita nell’obitorio del cimitero di Castelvetrano dal prof. Ideale Del Carpio nel tardo pomeriggio del 6 luglio 1950 con l’aiuto di due becchini. Dell’incartamento non viene trovata traccia. Né in Procura, né all’Archivio storico di Palermo dove tutti gli atti di inchieste penali devono essere portati decorsi 50 anni. «La prima cosa che mi colpì arrivato nel cortile De Maria - ricorda Livio Messina - fu che sul posto, di guardia al cadavere, ci fossero soltanto quattro carabinieri e il capitano Antonio Perenze, l’aiutante del colonnello Luca, che sostenevano che c’era stato un conflitto a fuoco. Era questa la versione ufficiale che veniva regolarmente fornita ai giornalisti dalle forze dell’ordine quando venivano uccisi dei banditi. Non sempre, però, corrispondeva alla verità. Io ero amico di Ettore Messana, l’ispettore generale della polizia in Sicilia, che mi raccomandò ad un capitano dei carabinieri. C’era un rapporto di fiducia e quindi spesso i militari dell’Arma mi portavano con loro di notte in perlustrazione delle campagne. Alcuni banditi furono uccisi in sparatorie, ma la maggior parte di essi fu ammazzata sul posto, senza alcun conflitto a fuoco. Così fu liberata nel dopoguerra la provincia di Catania dalla presenza di parecchi fuorilegge sanguinari». «Nel cortile - prosegue Livio Messina - a noi giornalisti fu impedito di entrare in casa dell’”avvocaticchio”, l’avvocato Gregorio De Maria che ha portato con sé nella tomba il segreto di quella notte. Ci fu permesso invece di restare accanto al cadavere di Giuliano.

C’erano gli inviati Tommaso Besozzi e Manlio Cancogni. Fu quest’ultimo ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava nella ricostruzione fattaci dai carabinieri. Nonostante Giuliano fosse stato colpito da diversi proiettili, la canottiera che indossava era, infatti, insanguinata ma non presentava alcun foro. Forse quando fu ucciso “Turiddu” era a torso nudo e quindi fu rivestito per la messinscena. Una ricostruzione che combacerebbe con la circostanza che a ucciderlo possa essere stato il cugino e luogotenente Gaspare Pisciotta, poi avvelenato, quattro anni dopo, con un caffé alla stricnina nel carcere palermitano dell’Ucciardone. C’era già qualche sospetto nei confronti di Pisciotta che noi giornalisti sapevamo infomatore del colonnello Luca, ma l’unica versione ufficiale della sparatoria era quella dei carabinieri. Lo scoop, però, non lo fece Cancogni e neppure io. Lo fece Tommaso Besozzi con l’articolo su “L’Europeo” e con un attacco che è passato alla storia del giornalismo: “Di sicuro c’è che è morto”». Le foto del cadavere crivellato di colpi, con le macchie di sangue sulla canottiera bianca che si allargano dal basso verso l’alto vincendo le leggi della forza di gravità, fecero il giro del mondo. E poco dopo venne fuori la storia che Giuliano, drogato, fosse stato ucciso nel sonno - mentre dormiva in casa dell’”avvocaticchio” di cui era da tempo ospite in attesa di espatriare all’estero - da Pisciotta su ordine degli stessi carabinieri. Versione che lo stesso Pisciotta finì per avvalorare, ma il veleno non gli diede il tempo di confermarla o di smentirla. E il sosia? «Se ne parlava anche allora - risponde Livio Messina - ma io ero sicuro che il morto fosse Giuliano. Chi avrebbe avuto l’interesse ad architettare una simile messincena? Lo Stato aveva tutto l’interesse ad attribuirsi il merito di averlo ammazzato, così come lo stesso Cfrb del colonnello Luca, che fu promosso generale. E poi Giuliano era stato ormai abbandonato da tutti, mafia compresa. Ed è quest’ultima che, anzi, potrebbe avere consegnato ai carabinieri il cadavere del bandito ucciso altrove. Il morto era comunque lui. Ero sicuro. Non esistevano foto segnaletiche di Giuliano. Io ce l’avevo invece da tempo. Con il compianto Vittorio Consoli, fotografo prima di diventare giornalista, mi trovavo al commissariato San Marco in via Gambino a Catania. Nel tabellone dei ricercati c’era la foto di Giuliano non ancora latitante. Vittorio la fotografò. Io vendetti la foto per 10 mila lire al settimanale “Cronaca nera” e fece il giro del mondo. Tante volte provai ad intervistare Giuliano latitante. Ci riuscì solo una giornalista svedese, Maria Cyliacus, che, correva voce, si era innamorata, ricambiata, di “Turiddu”». Il 31 ottobre 2012 l’inchiesta sul Dna è alla svolta definitiva. I resti del cadavere riesumato due anni prima appartengono a Salvatore Giuliano. Secondo i periti, il Dna combacia, per almeno il 90 per cento, con quello del nipote, Giuseppe Sciortino Giuliano. Il “giallo” è risolto. «Visto? Tanto rumore - osserva Livio Messina - per nulla». Ma su Giuliano, a parte menzogne e disinformazione, i misteri da chiarire restano ancora tanti».

© La Sicilia, 28 febbraio 2015

 
Il bandito Giuliano   

 

L’inviato Livio Messina per le campagne fra Paternò e Adrano in cerca dei banditi