La comunità che salva gli ultimi

GIORGIO PAOLUCCI
Editorialista - Avvenire

Scorrendo l’elenco dei tipi umani che abitano l’edificio, ti aspetteresti di entrare in un luogo dove domina un’atmosfera cupa. Nell’Oasi della Divina Provvidenza di Pedara, ai piedi dell’Etna, una manciata di chilometri da Catania, convivono disabili psichici e fisici, ex alcolisti, giovani agli arresti domiciliari dopo una condanna per spaccio, uomini e donne senza fissa dimora, profughi africani arrivati in Sicilia a bordo di un gommone. Sociologicamente parlando, un concentrato di emarginazione sociale. Ma l’aria che si respira qua dentro è un’aria positiva, anche i volti segnati dalla fatica del vivere esprimono una serenità che non t’aspetti.

«Prendono tutti la stessa medicina, in dosi massicce. Si chiama amore. Amore incondizionato ». Sorride Giuseppe Messina, fondatore e capo carismatico – anche se lui si considera 'il primo dei servitori' – di questa variopinta comunità che apre le sue porte a ogni genere di necessità. Senza calcoli di fattibilità, avendo come bussola una incondizionata fiducia nella Provvidenza, alla quale non a caso sono state intitolate le strutture aperte in questi anni. Nelle case famiglia dell’associazione Insieme, nata nel 2005, sono ospitate un centinaio di persone, aiutate da un manipolo di volontari che fanno della gratuità il loro stile di vita. Oltre alla sede principale a Pedara, nel tempo sono state aperte altre residenze in Sicilia e perfino in Romania, dove vengono accolti minori che avevano fatto della strada la loro dimora. L’ospitalità è gratuita, i costi vengono sostenuti grazie a donazioni di benefattori e alle generose offerte di prodotti da parte di supermercati e aziende agroalimentari. Qualche anno fa, dall’impeto evangelico che anima i protagonisti di questo 'laboratorio di nuova umanità' è nata Terraviva, una cooperativa sociale che gestisce un piccolo ristorante e un centro ricreativo per bambini.

Giuseppe Messina, 48 anni, un sorriso sulle labbra che non si spegne mai, ha alle spalle varie esperienze di condivisione nel mondo dell’emarginazione. Ha frequentato l’università, ma ci tiene a dire che «la strada è stata la scuola dove ho imparato di più. Nei volti degli ultimi incontro il volto di Cristo, e questa è la risorsa che riempie il mio cuore e alimen-ta il mio impegno. Vivendo in mezzo a loro ho toccato con mano che per realizzarsi l’essere umano ha bisogno del rapporto con l’altro. La vera identità si realizza nell’incontro, è aperta e dinamica, il contrario di quanto dicono i sostenitori di una identità chiusa e autoreferenziale. Il banco di prova è stata la conoscenza di tanti giovani migranti che abbiamo accolto nelle nostra case famiglia, dove hanno trovato volti amici, possibilità di imparare la lingua italiana e un mestiere, una fede cristiana che non ha paura di manifestarsi e che rispetta le altre esperienze religiose. Il bene genera bene, nell’incontro si realizza un arricchimento reciproco, la profezia di una convivenza dove le diversità sono vissute come valore aggiunto e fonte di arricchimento e non come una minaccia ».

Tra gli ospiti delle Oasi della Divina Provvidenza molti hanno conosciuto cadute dolorose – malattie, disabilità, crisi familiari, abbandoni, dissesti finanziari, detenzioni in carcere – e qui hanno incontrato uno sguardo d’amore che li ha accolti senza giudicarli e li ha aiutati a rialzarsi e ripartire, spesso grazie a un incrocio virtuoso di storie e destini. Un esempio tra i tanti: Keita, un giovane del Mali divenuto tetraplegico, vive da cinque anni in carrozzina e viene accudito da Luca, un ragazzo siciliano condannato per spaccio di droga e che qui sconta la sua pena avendo ottenuto la misura alternativa al carcere. «Vivono in piena simbiosi – racconta Messina –: Keita è uscito dalla depressione in cui era precipitato dopo l’incidente che lo ha paralizzato, Giovanni ha capito che non poteva sprecare la vita vendendo morte per le strade e che la sua esistenza si realizzadonando».Anche Giuseppe Messina si è rialzato dopo una caduta: vent’anni fa in seguito a un incidente in moto si è spappolato ischio, anca e ileo. Dopo 45 giorni immobilizzato a letto, con i medici che pronosticavano scarse probabilità di recupero, si è messo nelle mani di un chirurgo francese che a sua volta era rimasto vittima di un incidente in cui aveva perso moglie e figli. «In poco tempo mi ha rimesso in piedi: lei lo chiami come vuole, per me è stato un miracolo, è come se Dio mi avesse teso la mano per farmi rialzare. E ho capito che la mia vita devo spenderla per aiutare altri a rialzarsi e ripartire».

© Avvenire 18 agosto 2018