Bullismo e mafia visti dalla clausura. Intervista a madre Giovanna
Si è spenta lo scorso 18 agosto all’età di 89 anni Madre Maria Giovanna della Fortezza Eucaristica, al secolo Lucia Caracciolo, la religiosa che per quasi trent’anni fu alla guida del monastero di clausura di San Benedetto di Catania. Punto di riferimento umano e spirituale, la sua parola è stata faro per donne e uomini che guardando alla sua vita hanno trovato testimonianza di luce. Raccogliendone il ricordo, riproponiamo un’intervista che la priora rilasciò dieci anni fa a “La Sicilia”.
di Giuseppe Di Fazio
Il colloquio avviene attraverso una grata in ferro. Da un lato la priora Giovanna Caracciolo, 78 anni, da quasi 25 alla guida del monastero di clausura di San Benedetto nella centralissima via Crociferi a Catania, accompagnata da una giovane monaca dai buoni studi, suor Cecilia. Dall’altro lato della grata c’è chi scrive. Man mano che il dialogo s’infittisce risulta difficile dire chi stia dentro e chi fuori, chi sia veramente libero e chi prigioniero degli schemi della mentalità dominante. Nel parlatorio del monastero dove da 100 anni le monache benedettine conducono la loro vita di preghiera, di lavoro e di adorazione perpetua del Santissimo Sacramento il dialogo spazia dai temi più propriamente religiosi (la preghiera, il silenzio interiore e gli schiamazzi esterni, l’azione e la contemplazione) a quelli sociali (dalla crisi occupazionale alla droga, dalla mafia all’emergenza educativa).
Voi vivete nel silenzio, passate la notte nella preghiera e nell’adorazione eucaristica. Fuori da queste mura c’è il frastuono, ci sono i pub, c’è la musica sparata ad alto volume. Come avvertite il contrasto fra la contemplazione e lo sballo?
Madre Giovanna: «Ci può essere silenzio esterno e rumore interiore. E ci può essere rumore esterno e silenzio interiore. Il vero rumore lo facciamo dentro di noi. E’ vero, noi passiamo la notte nella preghiera e ci capita talora di sentire giovani che si ubriacano o che litigano. Allora la nostra preghiera cambia direzione, pensiamo a loro e al dramma delle loro famiglie». Madre Cecilia: «Nello scorso mese di luglio, dopo una veglia di preghiera, un nostro cooperante ha trovato sugli scalini della chiesa un giovane drogato, che era stato lì fuori tutto il tempo. L’indomani, dopo la messa mattutina, il giovane era di nuovo lì per sentire dall’esterno il canto di noi suore. E così nei giorni successivi. Saputo il fatto, gli abbiamo scritto una lettera, a cui egli ha risposto comunicandoci che il nostro canto lo faceva sentire accettato. Oggi quel giovane vive nel centro Italia in una comunità e ha cominciato un cammino di recupero per uscire dal tunnel della droga».
L’idea che, normalmente, si ha di voi è di persone recluse, che hanno perso la libertà e che, perciò, non possono essere felici. Vi ritrovate in questa definizione?
Madre Giovanna: «Un giorno è venuta a trovarci una signora dell’alta società. ’Che peccato - ha esordito, quando ci ha visto dietro la grata del parlatorio - mi sembrate in carcere’. Ho replicato: ’Ma sono io dietro le sbarre o è lei? Io, fino a prova contraria, sono libera, qui ci sono entrata con le mie gambe, l’ho scelto. Ma lei, la vita che fa l’ha scelta liberamente?’ Non c’è maggior libertà di scegliere ciò che la libertà non vorrebbe scegliere». Madre Cecilia: «C’è da aggiungere che la clausura è nata per motivi storici e non teologici, per difendersi dalle minacce delle invasioni esterne. Tanto è vero che san Benedetto dice: ’Non ti leghi a Cristo la catena, ma la preghiera’». Madre Giovanna: «Sappiamo bene come va il mondo, ma avvertiamo la necessità di un apparente isolamento per trovare Dio e conoscere veramente gli uomini. Così viviamo gli eventi con una sensibilità ancora più acuta».
Il vostro distacco dal mondo fa sì che veniate considerate socialmente inutili. Non a caso il vostro monastero fu soppresso dallo Stato italiano nel 1866 perché ritenuto privo di utilità sociale.
Madre Giovanna: «Non servono solo le opere, perché è Dio che agisce dentro la realtà. Un mondo senza preghiera, è un mondo senza cuore. Negli ultimi anni sta capitando un fenomeno nuovo: la gente, da tutte le parti d’Italia, ci scrive o telefona chiedendo preghiere per motivi particolari. E noi raccogliamo tutte queste richieste e le portiamo nella nostra preghiera. Stiamo diventando la banca della preghiera».
A volte la preghiera può essere più veloce di Internet…
Madre Giovanna: «Lo è certamente. Tutto diviene oggetto della nostra attenzione e della nostra preghiera che si innalza a Dio in tempo reale, più veloce del fax e di Internet, e ci fa raggiungere il mondo intero sulla rete dell’amore, navigando sui fili della fede e della solidarietà».
Ma, come benedettine, vi tocca coniugare preghiera e lavoro, adorazione eucaristica e azione.
Madre Giovanna: «Eccome, se lavoriamo. Vorrei che si potesse vedere la giornata delle monache. Ognuna di noi coniuga la preghiera con un lavoro particolare. In monastero tutto ciò che concerne la vita della casa è gestito da noi stesse: la cucina, la lavanderia, i dolci, le pulizie, la biblioteca, l’archivio, la scuola. La sveglia in monastero - per chi non è stata impegnata nell’adorazione notturna - è alle 5 del mattino, mezz’ora più tardi ci ritroviamo nel coro per la recita delle lodi: al primo posto nella nostra giornata c’è il Signore. Alle 7 partecipiamo alla Santa Messa e quindi passiamo al lavoro personale. Alle 12.45 recitiamo il rosario e l’ora media. Quindi, il pranzo e le pulizie. Nel pomeriggio ancora lavoro fino alle 17, quando comincia la formazione permanente. Alle 19 la cena e, a seguire, la ricreazione in cui finalmente possiamo parlare tra di noi».
Nel libro in cui raccontate cento anni della vostra storia a Catania, scrivete: "Dal nostro piccolo ma infinito spazio del monastero impariamo a guardare nel lembo azzurro che una finestra ci lascia intravedere, l’intero cielo". Come appare Catania dalla vostra finestra?
Madre Giovanna: «Dalla nostra finestra il mondo viene visto con gli occhi di Dio. Avvertiamo la crisi che si sta vivendo e la avvertiamo soprattutto attraverso i bambini. S’è sfasciata la famiglia, e la società va sprofondando sempre più. Ma non c’è distanza da parte nostra, c’è piuttosto dolore perché il mondo è creatura di Dio. Sappiamo che in città c’è la mafia, ma anche i mafiosi sono persone create da Dio. Gesù è morto in croce anche per loro. E noi preghiamo per loro, per la loro conversione».
I voti che pronunciate quando venite ammesse in monastero sono tre: obbedienza, conversione dei costumi e stabilità. Vorrei fermarmi su quest’ultimo. In pratica ognuna di voi entra in un determinato monastero per rimanervi per sempre.
Madre Giovanna: «C’è la stabilità del luogo, certamente. Ma c’è, soprattutto, quella dell’animo, un patto di alleanza col Signore. La stabilità del luogo non è assoluta: può capitare, infatti, che per ragioni di necessità una monaca venga trasferita in un altro monastero».
Resta però il fatto che il voto della stabilità pone i monasteri sullo stesso livello di una comune famiglia. Il monastero senza adeguati ricambi rischia la chiusura.
Madre Giovanna: «E’ un dato di fatto, tanti monasteri rischiano di invecchiare. Anche noi, a fronte di diverse madri anziane, possiamo annoverare solo 4 novizie (in totale le monache del monastero di San Benedetto sono oggi 29, ndr)».
Nell’immaginario catanese, ormai, la vostra esistenza è legata al canto che fate a sant’Agata ogni anno il 6 febbraio. Qual è il vostra rapporto con la martire Agata?
Madre Giovana: «E’ un rapporto affettivo. Noi affidiamo a sant’Agata la nostra comunità».
Che effetto vi fa vedere la folla che come sabato scorso si accalca in via Crociferi per ascoltare il vostro canto a sant’Agata?
Madre Giovanna: «Ci colpisce il raccoglimento davvero profondo di quella marea di folla che, assiepata lungo la via, vive con noi un momento di preghiera in una festa rinomata, purtroppo, spesso solo per il folklore che la circonda. Ma quando le nostre sorelle cantore si sistemano davanti alla cancellata della Chiesa, si fa un silenzio improvviso. Siamo convinte che sia possibile, e che stia già accadendo, dare una svolta alla festa perché trionfi la fede sugli interessi e sul folklore».
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© La Sicilia, 8 febbraio 2010