Milano, sfregiata la statua di Montanelli. Il segreto di Indro in una lettera a Corigliano
Trascinato nelle proteste antirazziste sull’onda dei “Black Lives Matter”, il nome di Indro Montanelli torna a riecheggiare nelle piazze. Insieme a quello delle più disparate figure storiche: da Winston Churchill a Leopoldo II passando per Cristoforo Colombo, tutti sul mirino di un avvertito bisogno di revisionismo storico che scruta nel passato per espungervi ritrovati carnefici. Una forma di damnatio memoriae si è abbattuta infatti sulle loro statue. In Italia ha toccato per primo il giornalista Indro Montanelli, fondatore de “il Giornale” ed ex firma di punta del “Corriere della Sera”, la cui penna comincia a campeggiare negli editoriali de “La Sicilia” durante l’era del direttore Antonio Prestinenza. Che ci fa il suo profilo bronzeo chino su una Lettera 22 nei Giardini Pubblici di Milano?
L’ostracismo ai tempi delle lotte politiche. Sono gli anni Settanta: la politica fa prima pagina col piombo. Indro Montanelli, durante la trasmissione di Maurizio Costanzo “Bontà loro” dell’11 aprile 1977, accusa gli antifascisti da salotto di non comportarsi diversamente dai fascisti. Nulla di più politicamente scorretto. L’intervento gli costa la radiazione da tutti i programmi televisivi, l’accusa di fascista e l’ostracismo da parte dei colleghi. Non di Gino Corigliano, ai tempi capo della redazione romana de “La Sicilia”. «Questi signori, libertari a parole – scrive il 15 aprile sulle nostre pagine Corigliano criticando i radical chic – propugnano che tutti abbiano il diritto di parlare, di contestare, di accusare, purchè però siano della loro parte politica». Un gesto coraggioso, quello del collega siciliano, che Montanelli non manca di ringraziare con una lettera che il giornalista Giuseppe Di Fazio propone ai lettori di “La notizia diventa storia” (Domenico Sanfilippo Editore, 2016) e che sarà esposta nella mostra per i 75 anni de “La Sicilia”. «Pare impossibile – scrive il 30 aprile Montanelli a Corigliano – che il dire delle cose di semplice buon senso sia diventato atto eroico, che altrettanto eroico sia da parte di un commentatore dire che il buon senso è buon senso». Poco più di un mese dopo, nel pieno giorno del 2 giugno, Montanelli, allora sessantottenne, è gambizzato dai brigadisti all’angolo fra via Manin e piazza Cavour, a Milano. “La Sicilia” dà la notizia in apertura; non tutte le testate fanno lo stesso. Nel 2006, a cinque anni dalla sua morte, vicino al luogo di quell’atto barbaro, è posta la statua in sua memoria.
Prendersela con le pietre. «La violenza non viene sempre e soltanto da destra; ce n'è anche un'altra di sinistra». Così nel 1980 Montanelli ricorda su “La Sicilia” l’attentato subito mentre commenta la strage di Bologna. E aggiunge: «Sono estremismi intercambiabili che, in nome di bandiere diverse, collaborano alla stessa eversione». Occorreva Montanelli per strappare il velo di Maya dall’ideologia manicheistica della guerra fredda? Per prendere contezza del fatto che gli estremi finiscono per toccarsi? Certo che no. Eppure ancora oggi è una denuncia che suona attuale. Questa storia getta luce non tanto sulla controversa figura di Montanelli che resterà forse ambigua, come sembra aver predetto il padre imponendogli il quarto nome di Schizogene, cioè «generatore di separazione». Non si vuole sindacare in questa sede sulle critiche mosse nei confronti della sua vita professionale e privata. Qui in gioco è la comprensione del momento che stiamo vivendo. Cos’è infatti questa rabbia che se la prende con le pietre? Non stiamo rischiando di smarrire il focus sul futuro e di trincerarci in «ismi», la morte di ogni idea giusta, di destra o di sinistra che sia? La libertà non può servire (solo) per creare macerie. Ma per costruire: progetti, sogni, realtà, pagine di storia. La critica ad alcune figure del passato, condivisibile con le lenti di oggi (e anche di ieri), diventa efficace solo se accompagnata da un piano propositivo. Come insegna il filosofo Bacone, alla pars destruens deve seguire la pars costruens. Come mostra la pandemia, non è ciò di cui abbiamo bisogno?